venerdì 5 maggio 2017

Tsukemono Hashi Yasume//il riposo delle bacchette

Barbabietole, carote, daikon, ravanelli....

Vi siete accorti che, nonostante la primavera, io continuo a stare sottoterra?
Sdraiata qui sotto contemplo i culetti a punta di queste verdure che mi scrutano dall'alto in basso come dita accusatrici.

Ho il sospetto che mi credano un lombrico inoperoso.
Peccato che io non lo sia e che invece stia cercando di spaccare la terra per poter germogliare e aprire le mie foglie al sole, proprio come loro.

Ma lo capisco e lascio perdere.
Forse perché so cosa vuol dire cercare la luce senza trovarla.

E mentre mi accoccolo tra sassi e radici, mi sovviene che, MAGARI, dovrei raccontarvi qualcosa di più interessante delle mie elucubrazioni mentali sulla presunta superiorità morale delle rape.

Anche perché questo post è in gestazione dall'estate scorsa e finalmente vorrei parlarvi degli tsukemono, termine giapponese che racchiude una gamma quasi infinita di preparazioni diverse tra loro, che vanno dalle semplice salatura di verdure servite fresche, fino alla fermentazione di vegetali anche per lunghi periodi, come ad esempio il famosissimo e fetente parente coreano (il kimchi) di cui vi avevo già parlato, che in comune hanno la nobile funzione di accompagnare il pasto, esaltandolo.


Nella cucina orientale non si può davvero parlare di “piatto principale”, dato che nella gerarchia gastronomica di queste culture il fulcro di ogni pasto è il riso: quando si parla di “contorni”, mentre noi pensiamo a tutte quelle preparazioni che accompagnano una proteina o comunque un piatto “forte”, nella cucina orientale per “contorno” si intende un accompagnamento al riso. 
Bollito, bianco. 

Anche la carne e il pesce sono considerati semplici “spalle” del riso, vero indiscusso re del pasto. Basti pensare -come avevo già detto altrove- che gohan in giapponese significa “ciotola di riso” e che comprende il concetto stesso di “pasto”.

-Cosa che trovo molto vicino al nostro modo di usare la parola “pane”, con tutte le valenze simboliche che ha per la nostra cultura.-

Non a caso si riteneva che si potesse campare con una ciotola di riso e del sale.
Qualcosa che sazia e qualcosa che da sapore e piacere.

E con questa parola non voglio fare la volpina maliziosa: piacere è anche sedersi in silenzio a guardare il mare inalando iodio fino in fondo ai polmoni, poter ascoltare la voce e guardare negli occhi qualcuno a cui tieni e che non vedi da tanto tempo, poter ammirare dal vivo un'opera d'arte che avevi visto soltanto sui libri e che per te significa tanto, mangiare una fetta di pane caldo con il primo olio della stagione...e tante altre piccole e grandi cose. 

Chissà perché invece tendiamo sempre a demonizzare il piacere considerandolo quasi sempre un vizio, come qualcosa in cui non si deve indulgere e di cui si può -o addirittura si dovrebbe- fare a meno. 

Ma ci dimentichiamo di come nutra, letteralmente, il nostro spirito, appagando quella parte di noi che non si può soddisfare con qualcosa di meramente materiale.
Possiamo anche avere la pancia piena, ma se il nostro spirito è affamato, non saremo mai sazi.

-E mai germoglieremo.-


O almeno è così che la interpreto io questa visione orientale del nutrimento essenziale, che si prende cura dello spirito e non solo del corpo...anche se questa cosa del sale avrà radici storiche, socio-economiche e culturali che senza dubbio mi sfuggono e quindi potevo evitare di arrotarmi -e arrotarvi- il cervello sulla questione.

Abbiate pazienza, lasciatemi essere romantica finché mi riesce.

Ma di che diavolo starò mai parlando, vi starete senz'altro chiedendo -ammesso che siate sopravvissuti fin qui alla lettura dei miei sproloqui-.

Questa pazza fanatica che vi parla per un'ora di riso bollito e sale e vi fa vedere verdure di dubbia provenienza che galleggiano in strani liquidi colorati e non. 
Quale sarà mai lo scopo di tutto ciò?
Ma soprattutto, perché cavolo dovreste mettervi a fare una roba del genere?

Vi faccio una semplice domanda, occidentaloni sushi-dipendenti dei miei umeboshi: vi piace lo zenzero agrodolce che ordinate al ristorante giapponese?

Ecco.

Ecco perché dovreste cimentarvi: perché queste strane verdurine sono esattamente la stessa cosa. E perché, usando questa tecnica, potrete provare a replicarlo a casa vostra -usando dello zenzero bio freschissimo e poco fibroso-, da servire con il vostro sushino a kilometro zero tra amici e potervi così bullare senza alcun ritegno.

Innanzi tutto bisogna specificare che la preparazione di cui vi sto parlando si chiama hashi yasume, che tradotto dal giapponese sarebbe, in pratica, “il riposo delle bacchette”, noi potremmo dire “che pulisce la bocca” o “rinfresca il palato”: questo tipo di tsukemono prevede quasi sempre l'utilizzo dello zucchero e dell'aceto -ma anche succo di limone e miele-, creando, in modo molto semplice ed immediato, un sapore agrodolce.


Non avete mai notato -certo che lo avete notato- che il riso del sushi ha un leggero sapore agrodolce?
Questo sapore sta benissimo con il riso ed esalta il pesce e, a sentito dire, consumare una componente lavorata con l'aceto -o ancor meglio lattofermentata- durante il pasto, favorirebbe la digestione.
I giapponesi ne sanno una più del diavolo.

Inoltre, se non vi fosse ancora venuto in mente, il dolce-agro di queste verdurine, va a contrastare in modo perfetto, quasi come i colori complementari di una tavolozza, il salato della soia e l'avvolgenza al palato dato dal grasso, della carne -che a giapponesi &co, piace grassa- o del pesce -vedi salmone- o comunque del condimento della preparazione da accompagnare al riso, il quale non mancherà di traghettare tutto sulla sua soffice, confortante neutralità, attraverso il vostro estasiato gargarozzo.

Alla fine sempre lì andiamo a parare: procuratevi un contrasto sensoriale e avrete trovato il piacere.
Vorrei che la facilità con cui si possono abbinare sapori, profumi e consistenze in un piatto si potesse trasmettere alle cose della vita: il giusto equilibrio sarebbe a portata di mano.

Ma torniamo in Cucina e rimbocchiamoci le maniche, che Celeste mi guarda male da dietro il bancone, brandendo minacciosamente un daikon di dimensioni equine.
-E quando inizio ad avere visioni di me stessa in terza persona la situazione è parecchio grave-

Vi darò delle proporzioni, invece che delle quantità, perché ritengo che sia più onesto darvi delle linee guida da seguire per poter dare sfogo alla vostra creatività -e necessità del momento- piuttosto che una limitante ricetta. 

L'unico consiglio è di abbondare con le quantità di soluzione zucchero/aceto: una volta pronta si conserva praticamente in eterno e l'avrete già pronta per i vostri prossimi tsukemono.


  • una parte di aceto bianco distillato
  • una parte di zucchero bianco superfino
  • una parte di acqua
  • sale q.b.
  • verdure fresche croccanti
Se volete preparare questa preparazione a freddo, per utilizzarla tutta in una volta, andrebbe fatto uno sciroppo con pari quantità di zucchero e acqua. Se l'idea vi piace di più, per praticità potreste anche utilizzare uno sciroppo già pronto che trovate in bottiglia al super.

Decidete cosa preferite fare ma tenete conto che, se realizzate una marinatura a freddo non protraete la conservazione di questi preparati per più di qualche giorno in frigorifero.

Ma veniamo finalmente al dunque!

Per questi ravanelli -un paio di bei mazzetti freschi, che dovrebbero essere i veri protagonisti della puntata- ho pensato di adottare due approcci differenti: i più piccini li ho “schiacciati” leggermente premendoli contro il piano di lavoro con la parte piatta di un mestolo in modo da spaccarli senza distruggerli, un po' come si fa per le olive (se qualcuna delle vostre mamme/nonne le fa ancora in casa, saprete senz'altro di cosa sto parlando) .

Quelli più grandi invece li ho tagliati a rondelle sottili, operazione che (se avete la mandolina) porterete a termine in 30 secondi netti.

Dopodiché li ho divisi in due ciotoline e li ho salati abbondantemente (circa 1½-2 cucchiaini per ciotola). Non preoccupatevi: la maggior parte di questo sale andrà eliminato con l'acqua di vegetazione prodotta delle verdure.

Massaggiateli con il sale, in modo da farlo penetrare bene, poi lasciateli riposare per 15/20 minuti.


-Questa operazione va fatta per qualsiasi tipo di verdura decidiate di utilizzare. Se scegliete verdure diverse e con colori differenti, utilizzate altrettante ciotoline per la fase di salatura, anche se alla fine dovranno finire nello stesso barattolo. Questo discorso cambia per verdure che tendono a cedere colore come la barbabietola e i ravanelli, perché andranno comunque a tingere qualsiasi altra verdura con cui entreranno in contatto. Cosa che in realtà si può utilizzare a nostro vantaggio, divertendoci anche un po'. Ma questo lo vediamo tra poco.-

Nel frattempo portate ad ebollizione l'aceto con l'acqua e lo zucchero, finché quest'ultimo non sarà completamente sciolto. Una volta a bollore abbassate la fiamma e procedete con il resto della preparazione.

Con le mani pulite, o meglio ancora con dei guanti, strizzate le verdure per eliminare l'acqua in eccesso. Disponetele in vasetti puliti e sterilizzati e, con attenzione, versatevi sopra la soluzione agrodolce bollente fino a coprirle completamente.

Se le avete -vi consiglio comunque di comprale perché non costano nulla, sono riutilizzabili e vi aiutano parecchio- utilizzate quelle piccole grigliette di plastica che si trovano anche nei sottolio, per tenere sotto la superficie del liquido le pietanze da conservare.

Chiudete bene e lasciate raffreddare completamente, prima di conservare in frigo fino al momento dell'utilizzo.

In realtà si può anche scegliere di preparare la soluzione agrodolce, farla raffreddare e versarla a freddo sulle verdure, lasciandole ancora più croccanti, ma ovviamente anche questa scelta può influire sui tempi di conservazione.

Questo è quanto: servite le vostre verdurine agrodolci in piccole ciotoline o piattini, guarnendole, se vi piace, con semi di sesamo nero -più che altro per contrasto cromatico-  e gustatele tra un boccone e l'altro del vostro pasto all'orientale.

Quelli fluorescenti e orrendamente sfocati nel piattino a foglia sono dei ravanelli schiacciati. Il vero aspetto del mio pranzo all'orientale: decisamente meno glamour e con tanto di tovaglia zozza e sbrodolature...-sorry-
* Se vi piace l'idea di realizzare uno tsukemono color magenta, tagliate del daikon a listarelle -ma chi vi impedisce di tagliarlo a fiorellini, foglioline, cuoricini, rombi...-, trattatelo come vi ho spiegato, e al momento di metterlo nei vasetti fateci scivolare dentro anche un paio di fettine di barbabietola pulita e pelata. Versatevi la soluzione agrodolce e lasciatelo riposare una notte. Il giorno dopo eliminate la barbabietola, che avrà assolto la sua funzione di colorante, e vi ritroverete con un riposa-bacchette rosa shocking.

* Per lo tsukemono di Kombu -che se la utilizzate durante la cottura del riso o in qualche brodo, vi capiterà senz'altro di averla in giro e di non sapere cosa farvene- tagliate a striscioline sottili l'alga già reidratata e mettetela in un vasetto. Preparate la marinatura con una parte di soia, una di zucchero di canna scuro e una di aceto -meglio se di riso o di mele in questo caso- portando tutto a bollore in un pentolino. Una volta sciolto lo zucchero versate nel vasetto con le alghe a striscioline, chiudete il vasetto e conservare in frigorifero, esattamente come per gli altri tsukemono.
Servitene qualche strisciolina sulle vostre ciotole di riso caldo, con qualche goccia di marinatura e una presa di sesamo tostato.

Ma non fatevi arginare: date libero sfogo alla vostra fantasia.

Il bello della cucina giapponese, e trovo che sia un punto in comune con la nostra, è l'utilizzo di prodotti freschissimi e stagionali: quindi se adocchiate qualcosa di particolarmente interessante al mercato, buttatevi. 

I giapponesi approverebbero.
Le rape probabilmente no.

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